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Italpizza

Edera

«Un giornale come La Classe – che è stato quello che ha segnato un po’ il passaggio tra gli anni ‘60 e gli anni ‘70 – si caratterizza non solo per gli editoriali che sicuramente mostrano tutta una serie di argomentazioni quantomai lungimiranti, ma perché dentro le pagine di quei giornali c’è la voce degli operai: questi giornali avevano restituito il linguaggio agli operai. Noi oggi assistiamo invece a qualcosa per cui queste lotte passano tranquillamente in sordina. Pensiamo alla lotta delle donne di Valdagno, cioè le lotte contro il conte Marzotto negli anni ’60, che era stata un elemento dirompente. Noi abbiamo avuto un episodio, fatte le tare del caso, non dissimile con la lotta di Italpizza a Modena, una lotta condotta prevalentemente da donne immigrate, dura, una lotta che però è passata del tutto inosservata. Mentre la lotta di Valdagno è stata presa a simbolo […] e su quella si sono costruiti percorsi di organizzazione e via dicendo, […] una lotta come quella di Italpizza è finita come una banale bagatella sindacale».

È una frase presa dall’ultimo intervento pubblico di Emilio Quadrelli, scomparso la scorsa estate. A partire da questo spunto, abbiamo pensato di chiedere ad alcun compagn che hanno attivamente partecipato a quella lotta di provare a raccontarla, cercando di ricostruirne alcuni tratti salienti. Considerando che è tutt’ora in corso rispetto a quegli eventi un grosso processo (120 persone indagate, 66 inputate), le vicende riportate eviteranno di entrare nei dettagli…

Partiamo da un elemento piuttosto noto. Il settore della logistica in Italia è attraversato nell’ultimo quindicennio, con intensità variabili, da significativi percorsi di lotta e sindacalizzazione, a partire dal ritorno di pratiche di lotta operaia basate sullo sciopero inteso come blocco. Se negli anni Novanta il magazziniere era un ruolo ben pagato svolto da “italiani” in appositi reparti e con contratto di tipo metalmeccanico, con i primi anni Duemila la progressiva espansione della logistica sulle onde delle catene globale del valore dei processi di globalizzazione trasforma il settore. Entra una nuova leva “di massa” composta da nuovi operai della logistica, migranti, con forme totalmente de-regolamentate di rapporto lavorativo e ad altissimo sfruttamento condito con una gerarchizzazione razziale. Dopo la crisi del 2007-2008, il settore continua a crescere, in controtendenza rispetto al resto del mercato, e dal 2010 nel milanese, e poi espandendosi velocemente per la megalopoli padana e in seguito anche oltre, iniziano lotte molto dure, spesso fortemente represse. Un ciclo potente che ottiene diritti, nuove forme contrattuali, forti aumenti salariali, nuovi rapporti di forza nei magazzini. Negli ultimi anni la nuova accelerazione dovuta alla digitalizzazione della logistica e all’arrivo di grandi player come Amazon (raggiungendo un miliardo di pacchi consegnati nel 2024, giusto per fare un esempio) sta nuovamente trasformando il settore e le sue lotte. Queste alcune brevissime pennellate di inquadramento. Torniamo a Italpizza.

Azienda nata nel 1991, specializzata in pizze surgelate, “fiore all’occhiello” del tessuto politico-imprenditoriale del territorio modenese. Fatturati alti, 1600 dipendenti. Nel 2018 decide di esternalizzare alcuni reparti e certe linee produttive. Il management ha “imparato” dalla logistica, legando la “crescita” allo “sfruttamento”. L’esternalizzazione ha infatti un preciso effetto: le società fornitrici di mano d’opera ingaggiano, per aggiudicarsi l’appalto, una gara al ribasso, togliendo diritti e salario – e non applicando il contratto di categoria alimentare ma quello multiservizi, una sorta di zona grigia contrattuale.

Ma la forza-lavoro logisticizzata si ribella. In maggioranza sono donne migranti. I ritmi di lavoro sono infernali e si assommano a grossi carichi di lavoro riproduttivo, nonché a molestie e sottomissione da parte di capi maschi (come era emerso anche in altri scioperi come ad esempio alla Yoox). Inizia una battaglia durissima. Lo stabilimento di Italpizza ha una localizzazione analoga a quella di molti dei magazzini che punteggiano tutto il tessuto urbano del nord Italia. Aree liminali, dove urbano e rurale si sono scontrati attraverso la costruzione di infrastrutture dando vita a un’esplosione che ha lasciato a terra un paesaggio anonimo e seriale. La produzione e circolazione delle merci, spesso articolata in flussi globali, ricerca e crea, spesso espande, questi panorami. Le aziende vanno alla ricerca di “aree depresse”, con grossi bacini di disoccupazione da cui poter attingere mano d’opera ricattabile e a basso costo, costi di edificazione bassissimi e con istituzioni locali deboli che di fronte a prospettive di qualsivoglia “lavoro” si chinano alle aziende. Italpizza, dicevamo, è installata vicino al casello autostradale di Modena Sud, su in incrocio stradale che sfuma in alcuni campi agricoli ritmati da edilizia per ricchi, qualche altro sito industriale, un paio di ristoranti. Dopo pochi minuti in macchina si arriva alla circonvallazione, e pian piano la città si fa più densa.

Copertina del primo numero di Teiko

© Il Resto del Carlino

È qui che un piccolo piazzale di snodo davanti ai cancelli, sito di transito per i mezzi-frigo che trasportano le pizze, diventa l’epicentro di blocchi prolungati per ottenere diritti, aumenti salariali e dignità. Le forze dell’ordine fanno ampio uso di cariche e lacrimogeni a più riprese per far smobilitare. È a suo modo una epica battaglia operaia che avviene inizialmente nel silenzio, ma quando lo scontro si inasprisce Italpizza agita la carta dell’“orgoglio locale”. Una repressione durissima degli scioperi si è già vista negli anni, dall’Esselunga di Pioltello all’Ikea di Piacenza alla Granarolo di Bologna. Il dispositivo che si attiva a Modena ha tuttavia una sua specificità. Più che altrove infatti qui le lotte hanno scoperchiato una verità prima invisibile. La ricca provincia fiera della sua produzione locale “scopre” che di locale, potremmo dire, c’è molto poco. Qualche tempo primo il reparto delle carni, ad esempio, a Castelnuovo. Gli scioperi mostrano come i tanto decantati salumi emiliani sono prodotti con suini importati e mano d’opera che in larga parte viene dal Pakistan (Giovanni Iozzoli ha ampiamente documentato queste lotte, e nel 2024 per alcuni di questi articoli è stato condannato per “diffamazione” al pagamento di circa 20.000 euro – tra risarcimento e spese legali – a favore di Italpizza). Anche qui la repressione è feroce. E anche per Italpizza è tutto il “sistema” che si schiera contro gli scioperi. A compattarsi infatti attorno alla dirigenza di Italpizza sono i media locali, i sindacati confederali, i partiti, le associazioni di categoria – assieme ovviamente a questura e prefettura, arrivando anche a costruire incredibili montature giudiziarie contro il sindacato SI Cobas che portano alla traduzione in carcere del suo coordinatore e una sorta di assalto operaio al carcere che contribuisce alla sua veloce liberazione. Cose che sembrano di altri tempi. Carcere che, è bene ricordarlo, vedrà ben 9 omicidi da parte della polizia durante il ciclo di rivolte nelle carceri all’inizio dell’esplosione pandemica nel marzo 2020.

I picchetti provano anche a muoversi verso l’autostrada, anche qui fermati a suon di manganellate sullo svincolo. Ma proprio tale vicinanza fa in modo che di fatto quell’uscita fosse inagibile durante i picchetti che bloccavano tutto. È una sorta di “contro-potere infrastrutturale” già visto ad esempio per molti Interporti. Un design urbanistico e architettonico progettato tra gli anni Ottanta e Novanta che aveva assunto la fine della storia e non pensava più alla possibilità di conflitti. Ha lasciato alcuni colli di bottiglia semplici da ostruire che generano a cascata un blocco generalizzato. Come una chiave inglese nella catena di montaggio, questi scioperi fanno dunque molto male alle controparti, ma appunto ricevono una risposta molto dura che arriva anche ad arresti domiciliari per alcuni sindacalisti.

La lotta riesce a durare per la forte determinazione operaia, e anche perché come in molti altri contesti si genera un potente meccanismo di solidarietà – non ovviamente “lineare” o privo di attriti - da altri magazzini che rafforzano i picchetti, da compagne di Non una di meno, nonché da collettivi e spazi sociali che arrivano da Modena, Bologna e altrove. La vicenda aprì anche a interrogazioni parlamentari, si articolò con campagne di boicottaggio dei prodotti Italpizza, e a sua volta l’azienda donò e fece sconti sulle sue pizze facendo leva nuovamente sull’“orgoglio produttivo emiliano” e su una “macchina del fango” attivata dai media. Una lotta combattuta anche nei tribunali, con il tentativo (fallito) di condannare il sindacato a pagare per i mancati introiti causati da scioperi e blocchi.

Non è una storia, questa, con finale da sol dell’avvenire. Il sindacato confederale intervenne nel sanare le irregolarità più vistose fatte emergere dalla lotta; il sindacato di base venne progressivamente represso con pratiche di mobbing e perse la maggioranza nell’azienda. Non ci interessa d’altra parte misurarci qui su cosa significhi il termine “vittoria” in un processo di organizzazione operaia, questione per nulla semplice né scontata. Ma è senza dubbio quella di Italpizza: una lotta che vale la pena ricordare per le sue caratteristiche “simboliche” e per i problemi che ha lasciato sul campo. Qui il processo di sindacalizzazione – con tratti sia molto “classici” sia estremamente originali – avviato nel mondo della logistica ha trovato un banco di prova importante per una possibilità di estensione. Incontrando un limite. Le aziende alimentari del modenese (ma è un discorso che può essere esteso a davvero innumerevoli altri ambiti) ha appalti simili alla logistica, fa un ricorso analogo alle cooperative per abbassare diritti e salari, presenta ritmi di lavoro e fa ricorso a linee di oppressione di genere e razza con ampie similitudini.

Laddove, dunque, una forma che si è dimostrata efficace di organizzazione, come quella dei comitati di base nel mondo della logistica, sperimenta forme di diffusione, si trova di fronte appunto a blocchi (sia dettati dalle controparti che in alcuni casi soggettivi). Questo, sul lato strettamente sindacale. Sul piano più di organizzazione della lotta in sé, la dinamica di “convergenza” che ha caratterizzato molte battaglie logistiche nel caso di Italpizza non è riuscita appieno – e da lì in avanti si è fortemente affievolita. La capacità, ossia, di catalizzare attorno a un blocco la solidarietà di lavoratrici e lavoratori di altre aziende, ma anche di forme studentesche militanti e di altre organizzazioni politiche e sociali. Ad oggi, infatti, questa capacità di fare di lotte sul lavoro (e anche più in generale) terreni simbolici di scontro in grado di catalizzare più ampie forme di solidarietà, scambio e interconnessione è un terreno difficile da costruire, tranne poche eccezioni. Il rischio è sempre quello che, senza questi elementi di “collegamento e generalizzazione”, la forma-sindacato finisca per assorbire le energie più vive – così come, di converso, senza una “forma” organizzata una lotta rischia di dissiparsi in fretta.

Torniamo, insomma, all’inizio. A un’interrogazione aperta su come sul terreno del lavoro (nella miriade di sfaccettature che esso ha oggi, ovviamente) sia possibile creare iniziativa politica in grado di non cadere nella difesa categoriale-corporativa, definendo processi aperti che abbiano però capacità di durata, di generare convergenze, lavorare sulla costruzione simbolica, e tanto altro. Interrogativi che, dicevamo, la lotta di Italpizza ha lasciato aperti. Una serie di rompicapo politici da cui può forse la pena ripartire, dentro uno scenario dei mondi del lavoro in repentina trasformazione tra nuova crisi economica e aumento dei processi di ristrutturazione. Ma, appunto, è probabile che alcune risposte possano essere trovate tra quei sorrisi e quegli sguardi induriti dai lacrimogeni, su uno spiazzo tra i campi e le strade di una anonima provincia.

Copertina del primo numero di Teiko

© CGIL Modena